La maggior parte dei praticanti di Ashtanga Yoga si sono confrontati, almeno una volta, con un infortunio o più semplicemente con un dolore in qualche parte del corpo. Questo non significa che questa pratica sia pericolosa o "faccia far male". Premetto che un infortunio è sempre colpa nostra o dell'insegnante, nel caso sia la conseguenza di un aggiustamento sbagliato o troppo spinto, mai della pratica in sé.
Ma questo non significa che il percepire dolore o quantomeno una sensazione di disagio sia sempre una cosa negativa.
Prendendo spunto da una riflessione di Gregor Maehle, cercherò di approfondire questo argomento.
Fondamentalmente ci sono tre tipi di dolori che si possono avvertire e ognuno di essi porta con sé un insegnamento.
Il primo, il più comune e forse il più superficiale è quello che deriva da un disallineamento o da un' errata esecuzione dell'asana. In questo caso basterà correggere il movimento o l'abitudine sbagliata per far sparire in breve tempo il dolore o fastidio capendo esattamente come si sta muovendo il nostro corpo prima di abbandonarsi al respiro e alla pratica in sé. Il dolore potrà essere ascoltato per imparare a muoversi in maniera diversa e con più consapevolezza.
L'insegnante qui avrà un' importanza notevole perché sarà i nostri occhi che ci guarderanno dall'esterno.
Il secondo tipo di dolore è quello derivato dallo scioglimento di un blocco profondo con conseguente riattivazione fisica/energetica/emotiva di una cosiddetta "zona morta". Questo tipo di dolore è più complesso del primo.
In una parte bloccata del nostro corpo oltre ad un' impossibilità di movimento ci sarà anche un blocco energetico ed emotivo. Con la pratica, giorno dopo giorno entriamo sempre più in profondità all'interno di questa zona buia fino a riportare un normale scorrimento di prana e conseguente risoluzione emotiva legata al blocco. Ma prima che avvenga ciò c'è un lavoro intenso da fare su se stessi. In questa fase qualcuno smetterà di praticare asserendo che questa pratica sia troppo pesante e pericolosa, scegliendo la via più semplice. Il dolore cesserà ma non perché fosse la pratica a crearlo ma perché si interromperà il processo di cambiamento profondo. Ovviamente una parte di noi sarà sempre restia al cambiamento in quanto esso cercherà di sradicare le nostre abitudini, paure o blocchi. Spesso siamo molto bravi a nasconderci dietro un ragionamento di tipo razionale o a trovar scuse per fermarsi, ma se si supera questa fase decidendo di andare avanti senza pensare a chiudere a tutti i costi un'asana ma godendosi la pratica per quello che è, ossia un' occasione di cambiamento ed evoluzione , si affronterà un periodo non semplice da gestire. A volte il dolore potrà anche essere intenso, ma se si rispetterà non si trasformerà mai in un infortunio. Per far ciò bisognerà accettare anche una apparente regressione della pratica (duro colpo per l'ego) ma che in realtà
sarà, se si avrà la pazienza di aspettare, un notevole passo avanti nel nostro cammino.
A volte l'evoluzione passa per strade che non avevamo preso in considerazione. La vera flessibilità nello Yoga è quella che ci consente di fluire verso risoluzioni che magari non avevamo considerato, in maniera serena, accettando un' altra via rispetto a quella sperata o scelta.
Il terzo tipo di dolore, forse il più difficile da accettare perché più profondo, è quello "karmico".
Quando attraverso la pratica si sta sciogliendo un nodo karmico, sopraggiungerà un dolore molto intenso quasi viscerale che ci destabilizzerà. Questo perché in un certo senso si sta "rinascendo". Il primo impulso sarà di fuggire da questa sensazione. In questo caso l'abbandono totale al respiro sarà fondamentale ancora di più rispetto al precedente tipo di dolore. Il respiro dovrà penetrare in profondità cercando di anestetizzare la sensazione fisica e allo stesso tempo agire da balsamo calmante per la parte emotiva.
Come per il parto per la donna è necessario percepire il dolore perché in esso si cela la "morte" della figura di figlia a favore della "nascita" di una madre, e attraverso il respiro si rende possibile questa trasformazione, così nella pratica a volte si passa attraverso il dolore per rinascere come praticanti ed individui per continuare il nostro cammino.
Sottolineo "a volte" perché non è il percorso di tutti.
Ciò che ci fa far male molto spesso è il nostro ego ed il fatto di non accettare che ogni volta che saliamo sul tappetino siamo una persona diversa, influenzata da tanti elementi che possono cambiare la nostra pratica in meglio o peggio anche da un giorno ad un altro.
Ma quando una pratica si può definire migliore o peggiore? E soprattutto si possono usare questi termini nello Yoga? Molto probabilmente molti saranno soddisfatti quando il loro corpo sarà sciolto e gli permetterà di fare tutto "come al solito" e quasi risentiti quando capiterà la giornata no, dove il corpo risulterà rigido e magari pieno di dolori. Ma lo Yoga inizia proprio quando si ha la capacità di accettare quello che la pratica ci offre in qualsiasi momento e situazione sempre mantenendo il sorriso e la calma, astenendosi dal giudizio che proviene dalla mente. Altrimenti si sta ricercando la performance... cosa più vicina però ad una competizione (verso se stessi e/o verso gli altri) che ad una pratica yogica.Ma questo non significa che il percepire dolore o quantomeno una sensazione di disagio sia sempre una cosa negativa.
Prendendo spunto da una riflessione di Gregor Maehle, cercherò di approfondire questo argomento.
Fondamentalmente ci sono tre tipi di dolori che si possono avvertire e ognuno di essi porta con sé un insegnamento.
Il primo, il più comune e forse il più superficiale è quello che deriva da un disallineamento o da un' errata esecuzione dell'asana. In questo caso basterà correggere il movimento o l'abitudine sbagliata per far sparire in breve tempo il dolore o fastidio capendo esattamente come si sta muovendo il nostro corpo prima di abbandonarsi al respiro e alla pratica in sé. Il dolore potrà essere ascoltato per imparare a muoversi in maniera diversa e con più consapevolezza.
L'insegnante qui avrà un' importanza notevole perché sarà i nostri occhi che ci guarderanno dall'esterno.
Il secondo tipo di dolore è quello derivato dallo scioglimento di un blocco profondo con conseguente riattivazione fisica/energetica/emotiva di una cosiddetta "zona morta". Questo tipo di dolore è più complesso del primo.
In una parte bloccata del nostro corpo oltre ad un' impossibilità di movimento ci sarà anche un blocco energetico ed emotivo. Con la pratica, giorno dopo giorno entriamo sempre più in profondità all'interno di questa zona buia fino a riportare un normale scorrimento di prana e conseguente risoluzione emotiva legata al blocco. Ma prima che avvenga ciò c'è un lavoro intenso da fare su se stessi. In questa fase qualcuno smetterà di praticare asserendo che questa pratica sia troppo pesante e pericolosa, scegliendo la via più semplice. Il dolore cesserà ma non perché fosse la pratica a crearlo ma perché si interromperà il processo di cambiamento profondo. Ovviamente una parte di noi sarà sempre restia al cambiamento in quanto esso cercherà di sradicare le nostre abitudini, paure o blocchi. Spesso siamo molto bravi a nasconderci dietro un ragionamento di tipo razionale o a trovar scuse per fermarsi, ma se si supera questa fase decidendo di andare avanti senza pensare a chiudere a tutti i costi un'asana ma godendosi la pratica per quello che è, ossia un' occasione di cambiamento ed evoluzione , si affronterà un periodo non semplice da gestire. A volte il dolore potrà anche essere intenso, ma se si rispetterà non si trasformerà mai in un infortunio. Per far ciò bisognerà accettare anche una apparente regressione della pratica (duro colpo per l'ego) ma che in realtà
sarà, se si avrà la pazienza di aspettare, un notevole passo avanti nel nostro cammino.
A volte l'evoluzione passa per strade che non avevamo preso in considerazione. La vera flessibilità nello Yoga è quella che ci consente di fluire verso risoluzioni che magari non avevamo considerato, in maniera serena, accettando un' altra via rispetto a quella sperata o scelta.
Il terzo tipo di dolore, forse il più difficile da accettare perché più profondo, è quello "karmico".
Quando attraverso la pratica si sta sciogliendo un nodo karmico, sopraggiungerà un dolore molto intenso quasi viscerale che ci destabilizzerà. Questo perché in un certo senso si sta "rinascendo". Il primo impulso sarà di fuggire da questa sensazione. In questo caso l'abbandono totale al respiro sarà fondamentale ancora di più rispetto al precedente tipo di dolore. Il respiro dovrà penetrare in profondità cercando di anestetizzare la sensazione fisica e allo stesso tempo agire da balsamo calmante per la parte emotiva.
Come per il parto per la donna è necessario percepire il dolore perché in esso si cela la "morte" della figura di figlia a favore della "nascita" di una madre, e attraverso il respiro si rende possibile questa trasformazione, così nella pratica a volte si passa attraverso il dolore per rinascere come praticanti ed individui per continuare il nostro cammino.
Sottolineo "a volte" perché non è il percorso di tutti.
Il mio non vuole essere un inno al dolore. Non sto dicendo che va ricercato attraverso pratiche intense o che se non sia presente non si stia praticando bene. Ognuno ha un percorso diverso che può portare a diversi stadi di evoluzione. Il mio vuol essere un tentativo di far capire che qualora nella nostra pratica sopraggiunga un dolore non va sempre scacciato o percepito come negativo. Può essere un' opportunità per imparare qualcosa. Va ascoltato, rispettato e mai "violentato" cercando di fare cose che in quel momento evidentemente non si è in grado di sostenere. Altrimenti il risultato sarà sempre un infortunio che ci "costringerà" a riflettere sul nostro eccesso di ego.
Ahiṃsā, la non violenza, prima di essere attuata verso gli altri e verso tutti gli esseri che ci circondano va applicata su di noi, anche quando pratichiamo...
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